20 fumetti da ricordare usciti nel 1998 - Fumettologica

2022-10-09 18:31:39 By : Mr. oscar jia

Correva l’anno 1998, 12 mesi nei quali esplose lo scandalo Clinton/Lewinsky, Titanic si aggiudicò ben 11 premi Oscar, Pantani vinse sia il Giro d’Italia che il Tour de France (ultimo ciclista a realizzare la doppietta) e, mentre due studenti fondavano un’azienda di nome Google, nacquero l’Euro e la Banca Centrale Europea. Sembra ieri, insomma. O forse no. Almeno a giudicare dai fumetti che ancora oggi è possibile ricordare.

Per rinfrescare la memoria abbiamo voluto selezionare 20 pubblicazioni a fumetti del 1998 che ancora oggi, nonostante gli anni trascorsi, la redazione di Fumettologica non riesce a dimenticare. Non (solo) i migliori, non (solo) guilty pleasure, ma quelli più indicativi della nostra memoria, un po’ perché davvero rappresentativi di quell’annata editoriale, un po’ perché la loro influenza si è estesa ben oltre il solo 1998. Chissà: li ricorderemo ancora tutti tra vent’anni? E voi?

«Questa è Sparta!» gridava Leonida in una celebre scena (poi divenuta anche un meme) del film 300 di Zack Snyder del 2007. Molti anni prima di quel film, per la precisione nel 1962, c’era stato però un bambino che era stato portato al cinema dai genitori a vedere L’eroe di Sparta di Rudolph Maté, e da quel momento aveva sviluppato una grande passione per la storia dell’antica Grecia. Stiamo parlando ovviamente di Frank Miller, che alla fine degli anni Novanta era ormai uno dei più influenti autori di fumetti della sua epoca, reduce dal successo di Sin City. Se c’era una cosa che le storie ambientate nella città del peccato erano riuscite a dimostrare, era che si poteva uscire con convinzione dai limiti del fumetto supereroistico. Fu così, forte della credibilità accumulata, che Miller propose a Dark Horse una storia incentrata sugli Spartani e sulla loro guerra contro i Greci.

300 in particolare si concentrava sull’eroismo degli Spartani, esaltandone – non senza qualche scivolone retorico – la perseveranza e l’attitudine al sacrificio, senza la pretesa di realizzare un fumetto storico. L’autore adottò infatti un approcciò espressionista sia nella scrittura che nel disegno, con l’obiettivo di creare un vero e proprio kolossal a fumetti. Non a caso, scelse un singolare formato di stampa orizzontale, che in qualche modo voleva ricordare il CinemaScope.

Pur non essendo tra le opere più riuscite di Miller, con il suo svolgersi in orizzontale 300 permise all’autore di sperimentare con il disegno (grazie anche alla colorazione di Lynn Varley) e la narrazione, proponendo scene indimenticabili come quelle dei soldati spartani che quasi si fondevano sotto i loro scudi oppure una magnifica sequenza che vede lo scontro tra un giovane Leonida e un lupo (che abbiamo raccontato QUI).

Nessuno si aspettava che Lewis Trondheim e Joann Sfar, assieme a diversi autori deL’Association, simboli del fumetto autoriale e indie francese, potessero proporre una serie mainstream. E invece La Fortezza (Donjon, in originale) non solo è una semplice serie fantasy, ma è matta, complicata da spin-off machiavellici, e diventerà un enorme e godibile giocattolone creativo tra all-star della nouvelle bande dessinée.

Secondo le intenzioni degli autori, La fortezza doveva essere suddivisa in tre serie, ambientate rispettivamente nel passato, nel presente e nel futuro della saga, per un totale di 300 numeri. Nei primi anni di pubblicazione qualcuno ci ha creduto davvero. Poi pian piano le uscite si son diradate sempre più fino alla conclusione arrivata nel 2014, dopo “soli” 36 albi. Inevitabile: era una promessa che gli autori non avrebbero potuto mantenere, presi come sono dai plurimi progetti che portano avanti in parallelo.

Ciononostante, La fortezza è stata una delle saghe fantasy più memorabili uscite Oltralpe, capace di riunire attorno a Sfar e Trondheim uno stuolo d’autori d’eccezione – Larcenet, Blain, Boulet e Blutch, per citarne alcuni. Un’opera stravagante, umoristica e unica, per come è stata concepita. Non esiste infatti un corretto ordine di lettura, ci si muove letteralmente nel tempo e nello spazio della storia, ma ogni albo contiene rimandi ad altri. Potete leggerli come volete, insomma, e ogni volume ha qualcosa di notevole. Gli autori l’hanno conclusa perché consapevoli di avere per le mani un racconto potenzialmente infinito e interminabile. Ma chissà, magari tra qualche anno la riprenderanno.

Negli anni Novanta, “nerd” non era ancora sinonimo di “cool” come oggi. A provare a sdoganare questo tipo di cultura ci pensava però Kevin Smith con i suoi film indipendenti, da Clerk a In cerca di Amy. Fu anche a lui che si rivolsero Joe Quesada e Jimmy Palmiotti quando, nel 1998, Marvel Comics affidò loro – che all’epoca erano alla guida della piccola Event Comics – la gestione di alcuni personaggi “urbani”, da Devil alla Vedova Nera passando per Pantera Nera e il Punitore, sotto l’etichetta Marvel Knights. Gli stessi Quesada e Palmiotti decisero di occuparsi della parte grafica della testata ammiraglia, Daredevil, i cui testi furono affidati proprio a Smith, fresco di uno script per un film di Superman che sarebbe poi passato nelle mani di Tim Burton (e seppellito).

Smith ideò una saga in otto episodi che prendeva alcuni elementi fondanti della storia del personaggio di Devil e li rielaborava in modo originale, facendolo scontrora con Mysterio. Le trame criminali del personaggio – nel ricalcare elementi della vita passata di Devil – riflettevano in modo metatestuale le stesse intenzioni dello scrittore, in modo da presentare il personaggio per le nuove generazioni. In più, la storia era graziata da un Quesada in procinto di divenire uno dei disegnatori più caldi del momento (e presto anche Editor-In-Chief della casa editrice, grazie al successo della linea Marvel Knights).

QUI un approfondimento sulla saga.

Il primo capitolo di Blame! si apre con un’inquadratura a volo di uccello, e al centro della vignetta si trova un ponte sospeso sopra un baratro senza fondo. Pare di essere all’interno di un qualche enorme complesso industriale privo di qualsiasi forma di forza lavoro umana. Un incubo così alieno e agorafobico da incastonarsi all’istante nell’immaginario fantascientifico planetario. La vicenda parte subito in maniera confusa, lasciando intendere che le cose non sarebbero certo migliorate con il passare delle pagine. Paradossalmente la si potrebbe riassumere come una lunghissima passeggiata in un luogo “Maybe on Earth, maybe the future” (dalla fascetta originale). Sul percorso il protagonista incontrerà disperati, esseri artificiali e mostri tecno-organici.

Il plot è rimasto praticamente improvvisato per tutti i dieci volumi che sono andati a comporre la serie, ma di questa cosa non è importato mai niente a nessuno. Perché il vero fulcro di quelle pagine non erano le peripezie di Killy ma il mondo immaginato da Tsutomu Nihei. Quelle sconfinate lande di materia inerte che si estendevano come mai nessun universo di finzione aveva osato fare. Senza nessun punto di riferimento plausibile, sconfinate oltre ogni ragionevolezza, deserte. Divise tra vertiginosi spazi vuoti e budelli. Sprofondate in una ragnatela di tratti neri sempre più fitta e astratta con il passare dei capitoli.

La serie si dimostrò fin dall’inizio un successo clamoroso, lanciando il suo autore nell’olimpo dei grandi autori. Una cosa non da poco, considerando che in tutta la sua carriera Nihei è riuscito ben di rado a dimostrare di essere un narratore anche solo cosciente dei suoi mezzi. Quello che è rimasto indiscusso è la sua capacità di costruire universi impossibili, ma dotati di una tangibilità palese. A dispetto della sua incapacità come sceneggiatore, della sciagurata prima edizione italiana (piagata da una traduzione confusa a cui si è provveduto a compensare in seguito con le varie riedizioni) e dell’austerità di tutta l’opera, a vent’anni dal suo debutto Blame! non ha ancora perso un grammo di potenza visionaria. In anni in cui ogni visione sul nostro futuro pare essere simile a tutte le altre, un risultato non da poco.

Il maestro del “colore diretto” proseguiva la svolta verso il bianco e nero iniziata nel 1992, con L’uomo alla finestra. Uscito per Einaudi, Stigmate (testi di Claudio Piersanti) sorprese ancora una volta, con una storia in cui la nuova “linea fragile” mattottiana esplode in matasse vertiginose, potenti, che preludono al ritorno del disegnatore al più nero degli inchiostri.

Si tratta di una storia cupa, toccante e a tratti violenta che racconta la caduta e la rinascita di un uomo violento a cui il risveglio da un sogno restituisce due stigmate sulle mani. Non c’è modo di curare le ferite, qualsiasi medicazione è inutile. Da quel momento la sua vita è segnata: perde il lavoro, finisce in mezzo alla strada e diventa un fenomeno da baraccone in un circo. Lì, mostrando le sue stigmate, si fa passare per un santone e imbonisce il pubblico dando spettacolo. Si sposerà anche, ma sarà solo un breve momento di serenità ritrovata, perché il peggio per lui deve ancora arrivare. Il suo passato tornerà a prendersi la rivincita. Finirà malmenato e in fin di vita in un ospedale, dove sopravviverà grazie alle cure di una suora, trovando la fede.

Una mistica Odissea dell’esistenza umana, nera come la china graffiante di Mattotti, Stigmate è un’opera nata per caso e per fortuna (anche nostra, di lettori, che dopo vent’anni siamo qui a ricordarla e di cui difficilmente ci dimenticheremo). A raccontarlo, all’epoca, fu lo stesso Piersanti: «Qualche anno fa, a Parigi, sono entrato in una libreria italiana e ho acquistato delle serigrafie di Mattotti che mi piacevano molto. Non lo conoscevo personalmente, anche se a Bologna avevamo vissuto per anni nello stesso quartiere. Nella stessa libreria di Parigi Mattotti aveva comprato il mio libro di racconti: me lo disse il libraio leggendo il mio nome nella carta di credito. Una di quelle serigrafie (la serie si chiamava Nocturne) è diventata la copertina di un mio libro. Così ci siamo incontrati, e abbiamo scoperto di essere due girovaghi (entrambi figli di militari) senza una vera città d’origine. Prima di incontrare Lorenzo non avevo mai scritto sceneggiature, né per fumetti né per film. Stigmate, all’origine, era un brevissimo appunto per un racconto mai scritto. Insieme a Lorenzo è diventato questa storia visionaria, che evidentemente per nascere davvero aveva bisogno dei suoi disegni. In fondo, anche se noi due non siamo poveri, abbiamo qualcosa in comune con questo personaggio ingombrante e senza nome: siamo apolidi, poco inclini ad associarci (in riviste o in tendenze culturali), cerchiamo di essere gentili ma non siamo molto mondani. I pettegoli, in Italia, dicono che ci unisce il nostro cattivo carattere».

Se la nuova missione delle serie Bonelli post-Dylan Dog voleva essere quella di ibridare i generi, con Brendon ne abbiamo avuta una prova bizzarra: fantascienza post-apocalittica, ma anche thriller, ma anche gothic fantasy. Un calderone kitsch segnato dall’inguaribile spleen che è rimasto una cifra di Claudio Chiaverotti, in precedenza primo erede di Tiziano Sclavi sulla serie dell’Indagatore dell’Incubo.

Il protagonista Brendon D’Arkness è un cavaliere di ventura che apparentemente agisce solo dietro compenso, ma che in realtà si ritrova spesso coinvolto in situazioni che non prevedono alcun ricavo. La sua serie è proseguita bimestralmente per 100 numeri fino al 2014 – con disegnatori come Massimo Rotundo, Corrado Roi, Esteban Maroto e Luigi Simeoni –, quando Chiaverotti ha deciso di proseguire con cadenza annuale per concentrarsi su un nuovo personaggio, Morgan Lost (che nel 2016 ha incrociato Brendon nel corso di un’avventura).

Gli anni Novanta furono il decennio di Image Comics e dei suoi studios o sotto-etichette, tra personaggi ipertrofici, grossi pistoloni e disegni che prevalevano sulle trame. Tutto questo non fece altro che portare allo sfinimento e a un parziale allontanamento una grossa fetta di lettori. A salvare la situazione, a fine decennio fu però un’etichetta interna alla stessa “Big I”, la Wildstorm di Jim Lee, che improvvisamente iniziò a puntare su una maggiore “qualità” (da pronunciare con un tono alla René Ferretti). Prima di essere acquisita da DC Comics l’anno successivo, nel 1998 l’etichetta rinnovò il proprio parco testate, mettendo al centro di tutto lo sceneggiatore britannico Warren Ellis, che ridefinì i supereroi con un approccio post-moderno proprio grazie a Planetary, serie disegnata dall’emergente John Cassaday.

Planetary racconta le avventure di un gruppo di tre “archeologi dell’immaginario”, personaggio dotati di super-poteri ma non della propensione a fare i supereroi: Elijah Snow, Jakita Wagner e Drummer. Il loro scopo è infatti quello di girare per il mondo, in un viaggio metanarativo all’interno della cultura popolare internazionale, allo scopo di esaminare eventi di taglio soprannaturale. L’opera di Ellis e Cassaday è, in breve, «un bigino di quell’immaginario pop con aspirazioni d’élite costituito da tutta l’evasione che non passava dai multisala o dai mediastore ultrageneralisti», per riprendere le parole di Evil Monkey su Fumettologica.

QUI un approfondimento di Planetary scritto da Alan Moore.

Quando nel 1998 Takehiko Inoue incominciò a pubblicare Vagabond per molti fu l’inizio di qualcosa di grandioso. Lo stesso autore che ci aveva regalato Slam Dunk, il suo manga capolavoro sulla pallacanestro, aveva deciso di lasciare da parte il gioco di squadra per raccontare la storia di un uomo solo, quella di Miyamoto Musashi, il samurai più famoso del Giappone.

Liberamente ispirato alla vita di Musashi, Vagabond fece capire che Slam Dunk non era stato un successo isolato e che Inoue era davvero un fumettista grandioso. In Vagabond c’era tutto quello che ci si aspettava dall’autore in termini di narrazione, pathos ed epica, con in più una definitiva maturazione del disegno, che se già era notevole, qui divenne spettacolare. Le ambientazioni e le scene di battaglia tra katane e schizzi di sangue, disegnate in maniera dinamica, con soluzioni originali e ricche di dettagli, sono immagini vivide, capaci di rimanere impresse a lungo nella mente di chi legge. E forse di Vagabond purtroppo ci si ricorda di più questo che della storia in generale. Perché, dopo una partenza a fuoco, Inoue cominciò a prendersela davvero comoda. Sul finire degli anni 2000 Vagabond iniziò a uscire con il contagocce, Inoue ne annunciò perfino la conclusione, salvo poi pubblicare a sorpresa nuovi capitoli e metterlo in pausa diverse volte.

Oggi il manga continua ancora, forse spinto dalle oltre ottanta milioni di copie vendute in tutto il mondo, ma è piuttosto chiaro che Inoue non sappia bene dove andare a parare. Eppure Vagabond, oltre agli splendidi disegni, alle licenze storiche che si prende e aii ritardi infiniti che accumula, è uno dei migliori seinen di sempre, nonché un grande racconto di formazione intriso di filosofia e cultura giapponese.

Vita da bambina di Phoebe Gloeckner rappresenta uno dei capitoli più importanti nel panorama dell’autobiografia a fumetti degli anni Novanta, periodo molto prolifico per questo genere di produzione. Si tratta di un’opera precedente rispetto a Diario di una ragazzina, fumetto a cui è ispirato il lungometraggio del 2015 Diario di una teenager, diretto da Marielle Heller, che ha riportato sotto i riflettori l’autrice.

Opera tra memoir e romanzo di formazione, questo graphic novel è un racconto intenso e sofferto, una confessione priva di alcun pudore e tratteggiata con un segno denso e ruvido che trova le proprie radici nell’underground americano più puro. La Gloeckner racconta la sua crescita e la sua educazione sentimentale deviata, segnata da violenze consumate tra le mura di casa. Vita di bambina è una lettura densa, che ha segnato uno dei punti di non ritorno per il fumetto autobiografico, affermando con urgenza la libertà di espressione del mezzo e rappresentando uno dei momenti più importanti per il fumetto d’autore femminile.

A fine anni Novanta, Sergio Bonelli Editore provò a lanciare una sfilza di nuove testate, nel tentativo di variare le proprie proposte. Tra queste, nel 1998, ci fu anche un nuovo poliziesco. Niente di nuovo? Tutt’altro: Julia è stata la prima serie regolare bonelliana con una protagonista femminile, ideata da quello stesso Giancarlo Berardi che nel 1974 aveva creato Ken Parker insieme a Ivo Milazzo. Per calarsi meglio nelle atmosfere della serie, Berardi frequentò per alcuni mesi i corsi di criminologia dell’università di Genova e si documentò su testi di psicologia, sociologia, psichiatria e altre discipline scientifiche attitenti.

Ispirata somaticamente all’attrice Audrey Hepburn, Julia Kendall è una criminologa che vive a Garden City, un’immaginaria città del New Jersey. Le sue avventure sono ancora presenti mensilmente in edicola dopo 20 anni e oltre 200 albi, segno che il personaggio è invecchiato molto bene e, anzi, sembra addirittura più contemporaneo oggi rispetto agli anni del suo esordio. Julia è infatti un solido feuilletton noir, con una profiler ben progettata, in grado ancora oggi di tenere testa a certa fiction televisiva nostrana.

Quando il fumetto muto era un oggetto raro, confinato a storie brevi su rivista, Francesca Ghermandi si spinse più in là, immaginando Pastil, una storia in due albi di 48 pagine – che nel 2003 diventerà un graphic novel per Einaudi – con una protagonista più unica che rara: una bambina dalla testa a forma di pastiglia. Una specie di Alice nel paese delle meraviglie, in versione chimica.

Pasticca è un viaggio nelle periferie urbane in cui l’autrice è solita ambientare le proprie storie. Qui seguiamo le disperata fuga di Pasticca dai crudeli scherzi di altri bambini. Si imbatterà in adulti arcigni e malvagi che animano un mondo vasto e minaccioso. Un pellegrinaggio inquieto tra le paure dell’infanzia, dettate dall’emarginazione, la solitudine e lo spaesamento.

Realizzato completamente con una matita di grafite, questo fumetto ci ricorda la grandezza di Ghermandi, autrice eccezionale capace di dare vita a vere e proprie visioni surreali. Il suo tratto gommoso e marcato, rotondo e giocoso, è talmente “vivo” e naturale da essere unico. Con Pasticca Ghermandi inventa visioni oniriche del nostro mondo. Ci ritroviamo così tra pagine cartoonesche che riflettono la nostra realtà, rendendola ancora più cupa e selvaggia. Forse quella stessa realtà che a volte ci rifiutiamo di guardare.

L’industria del fumetto americano è piena di esperienze fallite e di tentativi andati a male, magari perché troppo in anticipo sui tempi. L’esistenza di Paradox Press – etichetta di DC Comics nata per la pubblicazione di fumetti in formato graphic novel e durata dal 1993 al 2001 – è da ricondurre proprio in questo ambito. Le sue proposte originali, da Brooklyn Dreams di J.M. DeMatteis e Glenn Barr a A History of Violence di John Wagner e Vince Locke, viste con il senno di poi, sembrano davvero aver precorso i tempi.

Nel 1998, sotto questa etichetta ormai dimenticata dai più, esordì anche Road to Perdition, che sarebbe divenuto noto pochi anni dopo come fonte di ispirazione per l’omonimo film di Sam Mendes (il regista di American Beauty), interpretato da Tom Hanks e Paul Newman, tra gli altri. In Italia, il lungometraggio è diventato Era mio padre, titolo poi rimasto appiccicato anche al fumetto (per ovvie questioni di marketing).

Fu proprio grazie al film che Era mio padre ottenne una visibilità tardiva, ma si trattò comunque di una delle più riuscite esperienze da sceneggiatore di fumetti di Max Allan Collins, tra i principali romanzieri gialli contemporanei. Il fumetto raccontava – ispirandosi in modo parecchio evidente al Lone Wolf and Cub di Kazuo Koike e Goseki Kojima – le vicende di Michael O’Sullivan, spietato ma onorevole sicario della mala tradito dal proprio padrone e costretto a fuggire con suo figlio Micheal Jr., sullo sfondo dell’America della Grande Depressione.

Uno dei libri più densi ed emotivi del compianto maestro giapponese. In una cornice realistica, Taniguchi ha raccontato l’esperienza surreale di un uomo di quarantotto anni che si ritrova nel corpo di un ragazzo di quattordici. Una premessa se vogliamo anche banale e leggera, che ricorda un po’ quella del film Big, “classico” pop degli anni Ottanta con Tom Hanks.

Ritrovatosi adulto in un corpo di ragazzo, Hiroshi cerca di rimediare a errori e sventure che già sa per certo che accadranno, ritrovandosi di fronte all’irrimediabile. Con quell’umore profondamente malinconico che tinge praticamente ogni lavoro di Taniguchi, assistiamo al tormento interiore di un uomo messo di fronte alla possibilità di fare un bilancio della propria vita e comprendere così davvero il passato e il presente attraverso di esso.

Taniguchi è noto per i suoi manga realistici e sentimentali, spesso legati a un immaginario quasi mistico e sovrannaturale, e per il suo stile influenzato dalla linea chiara francese. In Una lontana città, l’autore ha messo in campo entrambi gli elementi, raggiungendo probabilmente il suo apice creativo e realizzando uno dei lavori più rappresentativi del fumetto contemporaneo giapponese.

Sillage è una serie di fantascienza tra le più famose prodotte in Francia negli ultimi anni. Al momento conta 19 volumi, albi specieli e due serie spin-off. In Italia è arrivata tardi e mai per intero: prima per Edizioni BD, che ne ha pubblicato solo un paio di volumi, poi per Lineachiara, ferma per ora ai primi tre tomi dell’edizione “integrale”, che raccolgono gli albi dall’1 al 9.

Il prolifico sceneggiatore Jean David Morgan – che in Francia ha scritto un po’ di tutto, da personaggi classici a storie originali – e il disegnatore Philippe Buchet ci catapultano in un mondo fantastico popolato da alieni e bizzarri animali. La storia racconta della giovane Navee che, assieme a una creatura felina, è l’unica abitante di un pianeta contraddistinto da una folta vegetazione. La sua libertà è interrotta dall’arrivo di una carovana con a bordo una serie di razze aliene che cercano un pianeta da colonizzare. Da queste premesse la serie si svilupperà in un susseguirsi di avventure, tra le più disparate, con al centro una riflessione sulla colonizzazione, la libertà, la multiculturalità e i progressi della scienza.

Potremmo definire Sillage un classico moderno del genere, con in più il fatto che sia pensata come una serie all-age, cioè godibile sia dagli adulti che dai più giovani, anche grazie a un disegno cartoonesco e accattivante che si discosta dalla ricerca avanguardista di altri autori della fantascienza francese, come quelli delle fila di Métal Hurlant. Non è un caso che il fumetto abbia vinto diversi premi relativi al settore “per ragazzi”, tra cui il Prix jeunesse 9/12 ans al Festival di Angoulême del 2006.

Nel 1998 Will Eisner vide la propria creatura, Spirit, trovare nuova vita in The Spirit: The New Adventures (tradotto in Italia da Panini Comics come Le nuove avventure), un’antologia in cui le voci del fumetto moderno si univano in un coro elogiativo, decostruttivo, distorcente o reverenziale. Il decano dei comics aveva abbandonato da tempo le storie pulp del detective mascherato per concentrarsi su lavori più corposi e personali. Tra questi, proprio nello stesso anno delle nuove avventure di Spirit, ci fu Affari di famiglia.

La storia di una cena di famiglia, organizzata per i 90 anni del patriarca, diventa l’occasione per fratelli e sorelle di confrontare le rispettive vite e decidere del futuro del padre, colpito da un ictus, silenzioso e immobile su una sedia e rotelle. Opera dal gusto teatrale, Affari di famiglia fu una delle ultime produzioni di Eisner, e nelle vignette che si ammucchiano sulle pagine senza soluzione di continuità è difficile non immaginarsi l’autore nel ruolo del silenzioso capofamiglia che guarda Spirit e il fumetto in generale percorrere altre strade, come il vecchio che osserva le vite della propria prole impossibilitato a esprimersi sulle questioni.

Se sul fine degli anni Novanta non avete sentito, anche solo per caso, il nome Hunter x Hunter, allora forse vivete in un’universo alternativo. Stiamo parlando di uno dei manga più di successo degli ultimi vent’anni, un vero e proprio bestseller in patria, con diversi milioni di copie vendute. Per farvi capire, tiene il passo di vere e proprie hit come One Piece o il più recente L’attacco dei giganti. Tra le altre cose esce ancora, anche se con ritmi davvero dilatati – un volume all’anno, quando va bene. Certo, potremmo dire che Hunter x Hunter non sia un must read, nel 1998 infatti uscirono opere di qualità forse superiore tra cui Shaman King, Shamo, Ichi the Killer, Fruits Basket e Uzumaki, ma nessuna di queste ha avuto così successo o è ricordata anche da chi il manga lo mastica poco.

Hunter x Hunter è uno shōnen che più classico non si può: è ambientato in un universo immaginario ben definito e accattivante; la vicenda ruota attorno a un personaggio principale e a una serie di comprimari a cui più o meno il lettore tende ad affezionarsi; ci sono magie e trucchi di ogni tipo; ci sono un sacco di combattimenti ogni volta contro un cattivo sempre più forte. Sostanzialmente la ricetta segreta di serie come One Piece o Dragon Ball.

Tutto sommato si deve riconoscere a Yoshihiro Togashi, già autore di Yu degli spettri, di aver saputo mettere in piedi una storia avvincente. L’avventura del giovane Gon Freecss, deciso a diventare un Hunter – ovvero un valoroso combattente giramondo con tanto di licenza – e le peripezie che la sua scelta comporta, è stata capace di entrare di prepotenza nel cuore di milioni di lettori.

Scritto da Jerry Holkins e disegnato da Mike Krahulik, Penny Arcade è un webcomic semi-autobiografico sulla cultura dei videogiochi. Nato vent’anni fa sul sito loonygames.com (e poi migrato sul più consono dominio penny-arcade.com) è uno dei webcomic più vecchi – e ancora attivi – e racconta di John “Gabe” Gabriel e Tycho Brahe, coppia di videogiocatori (espansivo il primo, cinico e sofisticato il secondo) e della loro routine ludica, in un costante motteggiamento delle mode e delle idiosincrasie dei videogiochi.

Insieme a PvP di Scott Kurtz (anch’esso nato nel 1998 e incentrato sulla cultura nerd), Penny Arcade è stato uno dei primi webcomic a trovare successo presso un pubblico ampio, permettendo ai suoi creatori di vivere grazie ai ricavi dei fumetti. Se inizialmente Holkins e Krahulik erano supportati dalle donazioni volontarie, con il passare degli anni la pubblicità e il merchandising hanno permesso loro diventare autonomi e fondare un piccolo impero videoludico-fumettistico. Grazie all’acume imprenditoriale di Roberto Khoo, che gestì le prime licenze e salvò i due da un’avventata cessione dei diritti sulla striscia, Penny Arcade ha ramificato la propria presenza attraverso spin-off, serie tv, videogiochi, canali YouTube e la Penny Arcade Expo, una convention a tema che attira ogni anno 60.000 giocatori.

Si fa presto a descrivere Stagioni: Superman, se l’avesse disegnato Norman Rockwell. Questa miniserie uscì in un periodo di magra per il mondo dei comic book in generale e in particolare per il personaggio protagonista, uscito con le ossa rotte dal megaevento La morte di Superman, che lo aveva fatto volare altissimo nelle vendite ma che aveva anche deluso i fan. I lettori erano emotivamente distaccati da qualsiasi suo prodotto, e nulla sembrava poterli convincere a tornare ad amarlo. Occorreva quindi una tripla dose di cuore per riavvicinarli.

Quattro capitoli – uno per ogni stagione – e quattro narratori (perché Loeb non si sentiva a proprio agio a stare nella testa di un’icona e preferì far parlare i comprimari) per una storia nostalgica, che guarda alla giovinezza di Clark e al suo sviluppo psicoemotivo, al suo rapporto con Metropolis, al dialogo tra le due identità del personaggio. La luce ambrata, la rappresentazione del Midwest e l’andamento pacato della storia ricordano proprio la poetica escapista di Rockwell.

Stagioni fu inoltre la scintilla che illuminò le menti di Alfred Gough e Miles Millar e li ispirò nella scrittura di Smallville, la serie tv sugli anni giovanili (Gough e Millar invitarono perfino Loeb a scrivere per lo show).

20 anni fa, a 70 anni dalla nascita di Topolino, eravamo in uno dei momenti d’oro del fumetto Disney in Italia. Era un’epoca di sperimentazioni (vi dicono niente le sigle PKNA e MMMM?) e di storie memorabili, scritte e disegnate dai maestri di oggi. Su Topolino n. 2243 del 24 novembre, a 70 anni e 6 giorni dalla prima proiezione di Steamboat Willie, fu pubblicata Topolino e il fiume del tempo, di Francesco Artibani, Tito Faraci e Corrado Mastantuono. Fu una storia mitica non solo perché scritta e disegnata da tre autori in stato di grazia, ma anche perché andò a colmare una mancanza nei fumetti di Topolino: il legame con il suo primo cortometraggio.

La storia, in breve, racconta le vicissitudini di Topolino e Gambadilegno per recuperare il relitto dello Steamboat Willie, affondato qualche tempo dopo la suonata di animali fatta dal giovane topastro. Ma i due amici/nemici non sono gli unici interessati al battello. La storia è un tassello fondamentale per l’evoluzione del rapporto tra Gambadilegno e Topolino. Faraci e Artibani mostrano chiaramente che tra i due non c’è odio, nonostante 70 anni di lotte, bensì addirittura una forma di affetto. Nonostante i calcioni e gli insulti, sono lontani i tempi in cui Gamba non esitava a sparare a bruciapelo al topo per portare a termine i suoi loschi piani. Questa lezione, già presente sottopelle in altre storie non solo del duo di sceneggiatori, farà scuola, modificando permanentemente la percezione in lettori e autori del cattivo per antonomasia del mondo Disney.

Topolino e il fiume del tempo passa con nonchalance dall’umorismo ai momenti più commoventi grazie anche ai disegni di Corrado Mastantuono, particolarmente ispirato e perfettamente a suo agio con il registro grottesco e a volte demenziale della trama.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, sulle pagine della rivista giapponese Afternoon dell’editore Kodansha, nacquero alcuni dei seinen manga più influenti di tutti i tempi. Insieme a Blame!, Narutaru (anch’essi del 1998), L’immortale e molti altri, Eden ha rappresentato uno degli apici della produzione di quegli anni.

In un futuro distopico dai contorni misteriosi, che si rivelano gradualmente, un gruppo di ragazzi è sopravvissuto a un virus che ha avuto conseguenze catastrofiche su buona parte dell’umanità. Su di loro è proiettata l’aspettativa e la responsabilità del ripopolamento del pianeta, ma, alcuni anni dopo, il racconto mostra un esito ben diverso e più cupo. Il disegno di Endo è elaborato e ben radicato nella tradizione della fantascienza a fumetti contemporanea giapponese, non distante dallo stile di Ryoji Minagawa o Yoshihisa Tagami, ma più posato, dettagliato e attento a un mecha assai realistico.

Eden è un lavoro ambizioso e visionario che ha trovato pochi eguali, anche tra la produzione di Endo stesso, che proprio con questo manga  ha raggiunto l’apice della propria carriera. In Italia, assieme a Blame!, ha fatto parte di una ondata di titoli che hanno aperto la strada ai seinen quando ancora era particolarmente difficile che nel nostro Paese venissero pubblicati manga dalle tematiche adulte e indirizzati a un pubblico maturo.

Leggi anche: 20 fumetti da ricordare usciti nel 1999

Hanno collaborato: Andrea Antonazzo, Alberto Brambilla, Andrea Fiamma, Evil Monkey, Andrea Queirolo, Matteo Stefanelli, Valerio Stivè.