Il Dante shakespiriano che da disoccupato si fa diplomatico

2022-08-21 05:55:53 By : Mr. JD Zhao

Noi formiamo le nostre convinzioni sull’apparenza; e, troppo presuntuosi, consideriamo l’aiuto del cielo alla stregua dei nostri fatti umani. Ma è il cielo ad agire, esso prende la mira, e fa centro, pur se il dardo si spezza nel colpo.

E anche Paolo… la risposta che Dante in quel momento leggeva sulle labbra del proprio cuore gli giunse alle orecchie dal podestà come in un’eco:

“Ah, se solo avessi potuto dare Francesca a Paolo anziché al fratello: la donna che lo amava sarebbe stata sua moglie!” La donna che lo amava sarebbe stata sua moglie… Ecco, qui c’era il succo, il segreto, la scintilla che mancava. Il podestà non aveva detto “la donna che Paolo amava”, ma “la donna che lo amava”. Di fronte all’amore non puoi tirarti indietro… Incapace di proferir motto per la commozione, Dante fu certo che nelle parole di Guido il Vecchio era stato un’ultima volta Paolo a parlargli, a spiegargli, a consolarlo, a illuminargli la via. Gemma era sua moglie. E lo amava.»

Dante e il podestà rientrano. La bara viene attorniata da quattro valletti. Forese si fa innanzi e, aperto il rotolo, legge il sonetto di Dante.

Venite a ’ntender li sospiri miei, oi cor gentili, chè pietà ’l disia: li quai disconsolati vanno via, e s’e’ non fosser, di dolor morrei; però che gli occhi mi sarebber rei, molte fiate più ch’io non vorria, lasso! di pianger sì la donna mia, che sfogasser lo cor, piangendo lei. Voi udirete lor chiamar sovente la mia donna gentil, che si n’è gita al secol degno de la sua vertute; e dispregiar talora questa vita in persona de l’anima dolente abbandonata de la sua salute.

Dante si aggira errabondo per Firenze come un cane ferito: piange e sospira, sbaglia più volte strada, infine imbocca un vicoletto a caso che lo conduce a un piccolo giardino, dove una fontanella spande il suoDante no tintinnante del suo zampillo. Si siede sul bordo di pietra della piccola vasca, e dà finalmente sfogo al turbamento.

«[…] risplende ai miei occhi il tuo volto come una luna argentea, sul traslucido seno degli abissi, attraverso l’umore delle mie lacrime. Bah! Ma che scempiaggini dico? Datemi un altro Dante che capisca me stesso. Parole, aiutatemi! Cervello, datti da fare! Uomini, siete contenti al quia? Oh quanto è corto il dire, e come fioco al mio concetto!»

Esausto, si lascia infine scivolare a terra ai piedi della fontana, e s’assopisce. Ma dura poco: si desta di scatto, come preso da una febbre, s’alza in piedi e lascia in fretta il giardino. Anzi, corre: verso il cortile di casa Alighieri.

Arriva sudato e ansimante, mentre il sole ancora graffia con le sue dita rosacee l’intonaco delle mura in cortile. Di lì passa nel suo studiolo. Le ferite nell’animo di Dante stanno cercando una benda di marmo: l’antico stemma di famiglia a strisce marmoree, quello degli avi Elisei. E a fianco, quello a scacchi bianconeri di zio Geri. Sono ancora lì in alto, sulla parete soleggiata dove egli stesso alcuni anni prima li aveva spostati dal cortile dopo averli messi allo scoperto, grattando l’intonaco a mani nude, fino a insanguinarsi i polpastrelli. Quella volta aveva funzionato: fissare i simboli di marmo a strisce e quadri bianchi e neri, poi sentirsi calare addosso quel torpore, e poi…

da “Ahi, serva Italia! Dante di Shakespeare II”, di Rita Monaldi & Francesco Sorti, Solferino, 624 pagine, 21 euro

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