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2021-12-27 18:08:12 By : Ms. Sorina CHAN

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Come è cambiata, se è cambiata, la percezione del corpo delle donne (e degli uomini) durante la pandemia di Covid-19? O più modestamente, come sono cambiati gli abiti che lo vestono? A guardare agli articoli dei media, specializzati e non, il mutamento c’è stato: incoraggiato dalle pratiche di confinamento, dalle nuove abitudini di vita, dall’esigenza di non uscire o di non vestirsi per occasioni esterne alla casa, con l’unica eccezione della pratica sportiva. Il mutamento principale, a livello globale e senza distinzioni di genere, è stato l’uso diffuso della mascherina per il viso, un oggetto medico-scientifico e che pure è dotato di una lunga storia, che non si può ripercorrere qui, ma che ha avuto implicazioni interessanti per la discussione sul regime di controllo dei corpi femminili lungo la faglia tra civiltà diverse, in particolare quella tra Occidente e Islam. In ogni caso, e si vorrebbe aggiungere: come sempre, l’attenzione (anche e soprattutto del mercato della moda e dell’abbigliamento) è stata principalmente rivolta al corpo femminile. Uno dei principali periodici del settore ha chiaramente descritto questo passaggio, sottolineando che crisi politiche e sociali hanno sempre influenzato il modo in cui le donne si vestono e che, nonostante la possibilità che la pandemia possa portare a una moda totalmente nuova, è più probabile che si torni prima o poi, passata la tempesta, all’abitudine del vestirsi formale e ricercato. Se questo può sembrare wishful thinking, è vero che alcune abitudini relative all’abbigliamento sembrano in corso di profonda trasformazione.

Il mutamento nel vestiario durante il lockdown non ha ovviamente riguardato solo le donne, ma il corpo più osservato è stato il loro, con la proposta insistente di uno stile o categoria di abiti, il loungewear (abbigliamento da casa) che esisteva certo anche prima della pandemia, ma che è sembrato al mercato e alle consumatrici particolarmente appropriato alle circostanze. Così i media, anche quelli situati nel campo progressista, hanno lanciato inchieste e raccolto testimonianze, proponendo e alimentando un’ansietà e forse una speranza di ‘tempi nuovi’ anche in questo settore. Nonostante si sia dato per scontato che sia uomini che donne, anche se intenti a lavorare on-line, abbiano adottato nel vestiario uno stile informale, con l’adozione di abiti provenienti dalla pratica sportiva, quello che sembra implicito è che siano state principalmente le donne le vittime di una forma di depressione collettiva che si esprime attraverso l’uso di abiti privi di forma, di colori tristi o neutri, o che non vengono mai cambiati. Si è addirittura proposta una nuova categoria, quella dello hate wear. L’abito informe è connesso all’impossibilità di vedersi se nessun altro (a parte, si presume, eventuali conviventi o familiari) ti vede: mancando lo specchio dello sguardo altrui, o avendo a disposizione al più lo specchio opaco (e tecnologicamente modificabile) del video, non è possibile vestirsi per esprimere il proprio Io sociale.

In questo paesaggio complesso, dove sembra dominare il desiderio di scomparire come corpo fisico, fa la sua apparizione un vecchio protagonista: il reggiseno. Istanze di rifiuto degli indumenti intimi come il corsetto e il reggiseno, legati alla costruzione ‒ percepita come repressiva e maschilista ‒ dell’immagine corporea femminile, hanno caratterizzato i movimenti di liberazione della donna tra Otto e Novecento.  La medicina e il mercato capitalistico si sono appropriati di molte di queste istanze, in una complessa negoziazione per il controllo di due punti cruciali dell’anatomia femminile, il ventre e il seno. Il movimento no bra era già vivace prima della pandemia, tanto che il termine si è guadagnato lo status di neologismo riconosciuto. Camille Froidevaux-Metterie ha dedicato un testo di inchiesta e di  raccolta di testimonianze in favore della ‘liberazione’ del seno. Questa liberazione, durante la pandemia, si sarebbe espressa con l’adozione sempre più diffusa del no bra. Il reggiseno, percepito come un oggetto scomodo, ingombrante, costrittivo e sostanzialmente repressivo, inteso al controllo sociale della mobilità e visibilità del seno, sarebbe così stato abbandonato in nome di una nuova naturalezza e di un nuovo rapporto con il proprio corpo. Un’inchiesta francese molto citata offre dati che dicono che l’indumento è sempre meno utilizzato, ma soprattutto dalle donne più giovani.

Nonostante tutto ciò, c’è un dato sorprendente che viene dal mercato: la vendita dei reggiseni sarebbe tutt’altro che declinata durante la pandemia, registrando invece un netto incremento nelle vendite. Come è avvenuto tante volte nella storia, questo indumento ha solo cambiato forma, adattandosi ai tempi mutati: non più push-up aggressivi, in voga dagli anni Novanta del secolo scorso, e ferretti sostenitivi, ma fasce o contenitori sportivi o derivati da quelli sportivi. Il rebranding è stato completato da nomi nuovi: bralette, sporty bra, tra gli altri. Pubblicizzati come più comodi, o almeno meno scomodi, indossati su siti commerciali da modelle dai corpi imperfetti e di etnie diverse (una concessione ai movimenti sociali di lotta contro gli stereotipi razzisti e il body shaming), i nuovi reggiseni sono venduti in grandi quantità. Il mercato, nonostante l’ideologia che lo attacca, è salvo. La medicina, molto loquace in altre epoche (si pensi alla polemica contro i corsetti troppo stretti, additati come responsabili della tisi) stavolta ha taciuto: tranne marginali interventi sull’eventuale pericolosità dei modelli di reggiseno troppo costrittivi, il dibattito sull’utilità dell’indumento non ha visto, in linea di massima, il ricorso ad argomenti ‘scientifici’, anche se molti siti commerciali insistono sui vantaggi dei nuovi modelli per la postura e per il benessere fisico generale.

A margine di questa ennesima vicenda di morte e resurrezione di uno degli elementi dell’abbigliamento femminile di più lunga durata storica, restano alcuni dubbi: sulla possibilità di risalire a una ‘naturalezza’ del corpo femminile; sul ruolo del mercato nell’orientare e riorientare desideri e immaginario corporeo; soprattutto, su una rivoluzione del vestiario che, a differenza di quelle che hanno segnato i primi decenni del Novecento con l’emancipazionismo, o i suoi anni Sessanta con il femminismo, non è stata accompagnata da un movimento politico esplicito, dotato di obiettivi precisi. Volendo, la pandemia ha piuttosto segnato il punto massimo di un arretramento strisciante e che soprattutto in alcuni Paesi, con la ristrutturazione e la crisi del mercato del lavoro, ha significato perdita di occupazione giovanile e femminile. Confinate in casa, le donne hanno forse abbandonato il reggiseno, ma hanno portato il peso maggiore dell’accudimento familiare, hanno spesso perso il lavoro, sono state più di sempre costrette alla rinuncia ai propri tempi di vita e ai propri spazi di libertà. Non consola che ciò sia servito a evitare sguardi e commenti non desiderati, violenze striscianti o esplicite, catcalling e simili. L’assenza dello sguardo dell’altro sul proprio corpo, o la limitazione dello sguardo a quello di partner o familiari, per quanto affettuosi o eroticamente carichi (ma si ricordi che la maggior parte delle violenze contro le donne avviene tra le mura domestiche) equivale in sostanza a una riproposizione di un tema assai antico, quello della protezione che la dimensione casalinga offrirebbe a un corpo femminile costruito come vulnerabile e bisognoso, in ogni senso, di contenimento e sostegno.

Frederick Treves, The dress of the period in its relations to health, Allman, London, 1882

Jill Fields, ‘Fighting the corsetless evil’: shaping corsets and culture, 1900-1930, in Journal of Social History, 33 (1999), pp. 355-384

Hillary Brenhouse,  The joy of not wearing a bra, in The New Yorker, October 26, 2017

Camille Froidevaux-Metterie, Seins. En quête d’une libération, Anamosa, 2020

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